Corte costituzionale n. 77 del 2018: ampliate le ipotesi di compensazione delle spese in giudizio

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La Corte Costituzione, con la sentenza numero 77 del 2018, è intervenuta in materia di compensazione di spese di lite in giudizio, dichiarando la parziale incostituzionalità dell’art. 92 comma 2 c.p.c., così come modificato dal d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito, con modificazioni, nella legge 10 novembre 2014, n. 162.
Nello specifico, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma in esame nella parte in cui non prevede che il Giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, oltre alle ipotesi tassativamente indicate dalla disposizione in esame.
Al fine di comprendere al meglio le ragioni di questa pronuncia costituzionale, risulta necessario un breve excursus sulle modifiche legislative che hanno investito il dettato normativo contenuto nell’art. 92 comma 2 c.p.c.
La norma, originariamente, prevedeva per il giudicante la possibilità di disporre la compensazione delle spese in giudizio, oltre ai casi di reciproca soccombenza, anche nei casi di soccombenza di una delle parti qualora il giudice avesse rilevato dei “giusti motivi”.
Alla luce di un orientamento giurisprudenziale consolidatosi negli anni, la decisione sulla compensazione delle spese processuali in giudizio, di fatto, era rimessa al potere discrezionale del giudice di merito, con l’unico limite secondo il quale le spese di lite non potevano essere a carico della parte totalmente vittoriosa (tra le tante si ricorda Cass. SS. UU. n. 20598 del 2005).
Nel 2005, il Legislatore, con la riforma contenuta nella legge 80/2005, ha modificato l’art. 92, comma 2 c.p.c., precisando che i giusti motivi dovessero essere “esplicitamente indicati nella motivazione”. La ratio di tale modifica era quella di restringere la portata applicativa della norma e, quindi, di limitare il potere del giudice.
Con la riforma n. 69 del 2009, il Legislatore è intervenuto con più incisione sulla norma in esame, modificandola in tal senso: “(…) se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti (…)”.
Dunque il Legislatore, per mezzo di tale intervento normativo, ha voluto limitare la prassi giurisprudenziale secondo la quale i giudici, con una certa discrezionalità, compensavano le spese processuali in giudizio, con l’unico limite del principio della soccombenza totale.
Senonchè il legislatore è nuovamente intervenuto in materia, con la legge n. 162 del 2014, restringendo ulteriormente i casi di compensazione delle spese in giudizio.
La norma, infatti, a seguito della modifica apportata nel 2014, recitava: “ (…) se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, il giudice può compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero (…)”.
Conseguentemente tale ulteriore modifica legislativa determinava il venir meno della possibilità di compensare le spese di lite in caso di “gravi ed eccezionali ragioni”. Infatti il giudice poteva compensare le spese in giudizio solo in due casi tassativi:
1. Assoluta novità della questione trattata;
2. Mutamento della giurisprudenza in materia.
Ed è proprio su questa modifica legislativa che è intervenuta la sentenza in esame.
La questione di legittimità costituzionale dell’art. 92, co. 2 c.p.c. è stata sollevata nel 2016 dal Tribunale di Torino, in funzione di giudice del lavoro, in un giudizio promosso da un socio lavoratore di una cooperativa per ottenere la condanna di quest’ultima al pagamento di importi a titolo di differenze retributive.
Il Tribunale di Torino lamentava la violazione del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., nonché dell’art. 24 co. 1 Cost., sulla scorta del fatto che la riduzione dei casi di compensazione delle spese porta “(…) a scoraggiare in modo indebito l’esercizio dei diritti in sede giudiziaria, divenendo così uno strumento deflattivo (e punitivo) incongruo (…)”.
Inoltre il giudice rimettente lamentava la possibile violazione del principio del giusto processo ex art. 111 comma 1 Cost. in ragione del fatto che “(…) si limita il potere-dovere del giudice di rendere giustizia, anche in ordine al regolamento delle spese di lite (…)”.
La medesima questione di legittimità costituzionale è stata sollevata anche nel 2017 dal Tribunale di Reggio Emilia, in funzione di giudice del lavoro, in una causa di impugnazione di un licenziamento da parte di una lavoratrice.
L’ordinanza di rimessione del Giudice del lavoro di Reggio Emilia, oltre a sostenere la violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost, riteneva che l’art. 92, comma 2 cpc, come modificato nel 2014, determinasse una violazione del principio di uguaglianza sostanziale ai sensi dell’art. 3, comma 2 Cost, rispetto alla precisa posizione del lavoratore in giudizio.
A detta del giudice di merito, infatti, il lavoratore, in quanto tradizionalmente parte “debole” rispetto al datore di lavoro, non dovrebbe essere trattato alla stregua di qualsiasi altra parte soccombente e, quindi, questo dovrebbe configurare un’ulteriore deroga al principio di soccombenza in giudizio, e ciò nell’ottica della tendenziale rimozione degli ostacoli di carattere economico e sociale alla tutela giurisdizionale.
La Consulta ha ritenuto necessario trattare le due questioni oggetto delle suddette ordinanze in modo congiunto.
La sentenza in esame, dopo aver affrontato una necessaria analisi degli orientamenti giurisprudenziali in materia, afferma che la modifica legislativa attuata nel 2014 introduce una irragionevole rigidità ai casi di compensazione delle spese in giudizio, con evidente violazione dell’art. 3 Cost, in quanto vengono escluse “altre analoghe fattispecie riconducibili alla stessa ratio giustificativa”.
Adetta della Consulta, rispetto all’ipotesi di “mutamento della giurisprudenza su una questione dirimente“, vi sono anche altri casi, non addebitabili alle parti, che sono riconducibili a tale specifica ipotesi, come per esempio, secondo la Corte Cost., “(…) una norma di interpretazione autentica o più in generale uno ius supervienens, soprattutto se nella forma di norma con efficacia retroattiva; o una pronuncia di questa corte (…) o una decisione di una Corte europea (…) o altre analoghe sopravvenienze (…)” (cfr. Corte Cost. n. 77/2018). Trattasi di situazioni gravi ed eccezionali, ma non ascrivibili a casi specifici e individuati.
Stessa valutazione è stata operata dalla Consulta rispetto all’ipotesi di “assoluta novità della questione”.
Pertanto si legge nella sentenza in oggetto che “(…) è possibile ipotizzare altre analoghe situazioni di assoluta incertezza, in diritto o in fatto, della lite, parimenti riconducibili a “gravi ed eccezionali ragioni” (…).
Ne consegue, quindi, che la Corte costituzionale ha accolto le questioni sollevate dal giudice rimettente di Torino, affermando l’illegittimità costituzionale della norma in oggetto per violazione del principio di uguaglianza, del principio di tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost, nonché del principio del giusto processo ex art. 111 Cost.
Diversamente, la Consulta ha ritenuto infondato il profilo di censura sollevato dal Tribunale di Reggio Emilia, rispetto all’eventuale pregiudizio circa la posizione debole della parte-lavoratore in giudizio.
Nello specifico la sentenza afferma che la semplice presenza del lavoratore in giudizio, come parte ricorrente o resistente, non determina di per sé una deroga all’obbligo di rifusione delle spese processuali a carico della parte soccombente.
Ed invero, la Consulta ha precisato che sussistono già degli strumenti legislativi idonei a colmare tale disuguaglianza sostanziale tra lavoratore e datore di lavoro in giudizio, quale, in particolare, il contributo unificato per le spese di giustizia.
Sul punto la Corte Costituzionale richiama, infatti, la disposizione contenuta nell’art. 13, comma 3 del DPR 115/2002, la quale sancisce che il contributo unificato che è tenuto a versare il lavoratore ricorrente qualora agisca nei confronti del datore di lavoro è ridotto della metà.
In altre parole, alla luce della pronuncia della Corte Costituzionale in esame, il giudice di merito potrà escludere, per il lavoratore soccombente in giudizio, il pagamento delle spese di lite solo qualora ricorrano gravi ed eccezionali motivi, e ciò indipendentemente dal suo status di lavoratore.
A titolo esplicativo, la sentenza individua, quale tipico caso di compensazione delle spese di lite per “gravi ed eccezionali motivi”, l’ipotesi in cui “il lavoratore, per la tutela dei suoi diritti, debba talora promuovere un giudizio senza poter conoscere elementi di fatto, rilevanti e decisivi, che sono nella disponibilità del solo datore di lavoro (cosiddetto contenzioso a controprova)” (cfr. Corte cost. 77 del 2018).
In conclusione, l’intervento della Corte Costituzionale sull’art. 92, comma 2 c.p.c. ha determinato un ampliamento delle ipotesi di compensazione delle spese di lite in giudizio, riattribuendo, di fatto, un potere discrezionale al giudice di merito circa tale decisione.
Tuttavia la Consulta ha escluso che la compensazione delle spese debba operare sempre e comunque qualora parte soccombente sia il lavoratore.

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