2019

CONGEDI PARENTALI: COSA CAMBIA CON LA LEGGE DI BILANCIO 2019?
fotia / 0 Comments /La legge di bilancio 2019 ha previsto molteplici novità per le lavoratrici e i lavoratori, in particolare quanto ai congedi parentali.
Di seguito, si riportano le novità per le lavoratrici e i lavoratori dipendenti.
- Cosa cambia in merito al congedo di maternità?
Il congedo di maternità è il periodo di astensione obbligatoria dal lavoro riconosciuto alla lavoratrice durante il periodo di gravidanza e puerperio (il periodo immediatamente successivo al parto). Tale diritto spetta anche in caso di adozione o affidamento di minori.
La regola generale prevede l’obbligo per la lavoratrice di fruire dell’astensione nel periodo compreso tra i due mesi precedenti la data presunta del parto e i tre mesi successivi al parto. In caso di adozione o affidamento nazionale di minore, il congedo di maternità spetta per i 5 mesi successivi all’effettivo ingresso in famiglia del minore adottato o affidato preadottivamente, nonché per il giorno dell’ingresso stesso. In caso di adozioni o gli affidamenti preadottivi internazionali, il congedo spetta per i 5 mesi successivi all’ingresso in Italia del minore adottato o affidato nonché per il giorno dell’ingresso in Italia. In caso di affidamento non preadottivo, il congedo spetta per un periodo di tre mesi da fruire, anche in modo frazionato, entro l’arco temporale di cinque mesi dalla data di affidamento del minore.
La novità introdotta dalla legge 30 dicembre 2018 n. 145 ha previsto, invece, che è riconosciuta alla lavoratrice la possibilità di astenersi dal lavoro nei cinque mesi successivi al parto.
Tale facoltà è condizionata dall’emissione di certificazione da parte del medico specialista convenzionato con il SSN e dal medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro, attestante l’assenza di qualsiasi pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro.
- Cosa cambia in merito al congedo di paternità?
Ha diritto all’astensione obbligatoria anche il padre lavoratore, che ne beneficia in alternativa alla madre nelle seguenti ipotesi: a) morte o grave infermità della madre; b) abbandono del figlio da parte della madre; c) affidamento esclusivo del figlio al padre.
In via sperimentale, l’articolo 4, comma 24, lettera a), legge 28 giugno 2012, n. 92 ha istituito il congedo obbligatorio e il congedo facoltativo, alternativo al congedo di maternità della madre, fruibili dal padre lavoratore dipendente anche adottivo e affidatario, entro e non oltre il quinto mese di vita del figlio.
In particolare, il congedo sperimentale di paternità si distingue in:
- congedo di paternità obbligatorio che è fruibile dal padre entro il quinto mese di vita del bambino (o dall’ingresso in famiglia/Italia in caso di adozioni o affidamenti nazionali/internazionali) e, quindi, durante il congedo di maternità della madre lavoratrice o anche successivamente purché entro il limite temporale sopra richiamato. Per di più, tale congedo si configura come un diritto autonomo e, pertanto, è aggiuntivo a quello della madre e spetta, comunque, indipendentemente dal diritto della madre al proprio congedo di maternità. Il congedo obbligatorio è riconosciuto anche al padre che fruisce del congedo di paternità, ai sensi dell’articolo 28, decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (cfr. primo periodo, paragrafo 2).
Il congedo consiste in due giorni di astensione dal lavoro retribuiti che, nel 2018, sono stati estesi a quattro giorni. Per l’anno solare 2019, l’articolo 1, comma 278, legge 30 dicembre 2018, n. 145 (legge di bilancio 2019) ha aumentato a cinque il numero dei giorni di congedo obbligatorio che possono essere goduti anche in via non continuativa, per gli eventi parto, adozione o affidamento;
- congedo di paternità facoltativo è, invece, condizionato alla scelta della madre lavoratrice di non fruire di un giorno di congedo maternità. Il congedo facoltativo è fruibile anche contemporaneamente all’astensione della madre e deve essere esercitato entro cinque mesi dalla nascita del figlio (o dall’ingresso in famiglia/Italia in caso di adozioni o affidamenti nazionali/internazionali), indipendentemente dalla fine del periodo di astensione obbligatoria della madre con rinuncia da parte della stessa di un giorno. Infine, il congedo spetta anche se la madre, pur avendone diritto, rinuncia al congedo di maternità.
Il congedo facoltativo è stato previsto nella misura di un giorno per l’anno 2018. Per l’anno solare 2019, l’articolo 1, comma 278, legge 30 dicembre 2018, n. 145 (legge di bilancio 2019) ha confermato la possibilità di fruire di un giorno di congedo facoltativo in alternativa alla madre.
Il padre lavoratore dipendente ha diritto, per i giorni di congedo obbligatorio e facoltativo, a un’indennità giornaliera a carico dell’INPS pari al 100% della retribuzione.

2018

LICENZIAMENTO: cosa cambia con il Decreto Dignità?
fotia / 0 Comments /Il Decreto Dignità ha introdotto molteplici novità in materia di tutela dei lavoratori e alcune di queste riguardano precipuamente la fattispecie del licenziamento.
Vediamo ora cosa cambia per i lavoratori.
Chi è interessato?
La riforma interviene sui casi di licenziamento illegittimo prevedendo nuove misure delle indennità da corrispondere al lavoratore soggetto alle cosiddette “tutele crescenti”, cioè chi è stato assunto, trasformato o stabilizzato al termine dell’apprendistato, a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015.
Le stesse modifiche interessano anche i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 in realtà lavorative che occupavano fino a 15 dipendenti che successivamente sono diventati maggiori di 15.
Chi è escluso?
Nessuna modifica interessa i lavoratori già in forza alla data del 6 marzo 2015 per i quali continuano ad applicarsi le norme della riforma Fornero (Legge n. 92/2012).
Possiamo inoltre affermare che, il Decreto in parola non ha minimamente toccato la fattispecie dei licenziamenti nulli o inefficaci.
Ricordiamo che i licenziamenti sono tali quando comminati:
- per motivi diretti alla discriminazione sindacale, politica, religiosa, razziale, di lingua, di sesso, handicap, età, basata sull’orientamento sessuale o le convinzioni personali:
- per ragioni legate alla fruizione dei congedi per maternità e paternità;
- in forma orale;
- per causa di matrimonio.
Nelle ipotesi appena citate, come negli altri casi di nullità del licenziamento previsti dalla legge, nulla è cambiato rispetto alle previsioni originarie dettate dal d.lgs. n. 23/2015, rimanendo quindi valida la reintegrazione nel posto di lavoro. La medesima soluzione della reintegra è prevista per il caso in cui si accerti che il fatto contestato al lavoratore non sussista.
Cosa cambia?
1 – Importo del risarcimento
Il Decreto Dignità si limita a modificare l’indennità risarcitoria prevista dal Jobs Act (art. 3, co. 1, d.lgs. 23/2015) per i licenziamenti illegittimi intimati ai lavoratori.
Per le imprese con più di quindici dipendenti, nelle ipotesi in cui non sussistano gli estremi del licenziamento per giusta causa, giustificato motivo soggettivo o oggettivo, il giudice dichiara comunque estinto il rapporto di lavoro e condanna il datore al pagamento di un’indennità risarcitoria, non soggetta a contributi previdenziali, pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 6 (in precedenza erano 4) e non superiore a 36 (in precedenza erano 24) mensilità.
Per le aziende che impiegano fino a quindici dipendenti, è comunque prevista l’estinzione del rapporto di lavoro a seguito di licenziamento illegittimo e il pagamento di un’indennità risarcitoria, non soggetta a contributi, pari a 1 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, in misura comunque non inferiore a 3 (prima erano 2) e non superiore a 6 (anche in precedenza erano 6) mensilità.
2 – Offerta di Conciliazione
Il Decreto Dignità influisce anche sull’istituto della conciliazione volontaria, come introdotto dal Jobs Act per i licenziamenti illegittimi irrogati nei confronti dei lavoratori soggetti al regime delle “tutele crescenti”.
Questa disciplina prevede che, entro 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento, il datore che impiega più di quindici dipendenti possa offrire al lavoratore una somma, esente da contributi e imposte, pari a 1 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura non inferiore a 3 (prima erano 2) e non superiore a 27 (prima erano 18) mensilità.
Per i datori che impiegano fino a quindici dipendenti, l’offerta di conciliazione non può essere inferiore a 1,5 (in precedenza era 1) e non superiore a 6 (questo limite è rimasto invariato) mensilità.
L’accettazione di questo risarcimento, se avviene in una sede protetta, ha come effetto l’estinzione del rapporto di lavoro alla data del licenziamento e la rinuncia, da parte del lavoratore, alla sua impugnazione, evitando così l’instaurarsi del relativo giudizio.
Da quando si applicano le modifiche?
Le modifiche sopra esposte si applicano ai soli licenziamenti intimati dal 14 luglio 2018. Per tutti gli altri casi continuerà ad avere efficacia la normativa precedente.

2018

NOTA A SENTENZA- TRIBUNALE DI BUSTO ARSIZIO – SEZIONE LAVORO – SENT. N. 108/2017 – PUBB. 13/03/2017
fotia / 0 Comments /SERVIZI AEROPORTUALI – CONTRATTI A TERMINE – PROROGHE – LIMITE DURATA – VIOLAZIONE ART. 2, COMMA 1, D.LGS. 368/2001 – ILLEGITTIMITA’ – CONVERSIONE DEL RAPPORTO A TEMPO DETERMINATO – RISARCIMENTO DEL DANNO.
MASSIMA
“La disciplina per il trasporto aereo deve considerarsi alternativa, e non aggiuntiva, a quella generale, il che non consente al datore di lavoro di applicare sia l’una che l’altra, violando apertamente l’art. 2 del D.lgs. 368/2001”.
***
Nel caso concreto esaminato dalla sentenza in commento la lavoratrice, dipendente presso le società di servizi aeroportuali, ricorreva al Tribunale di Busto Arsizio, Sezione Lavoro, perché venisse dichiarata l’illegittimità/nullità/annullamento dei contratti di lavoro a termine stipulati (da settembre 2013 con A. – ora A. in liquidazione- e da giugno 2015 con W).
1) Contratto a termine settore trasporto aereo: disciplina speciale – ratio normativa previgente
Considerata la particolarità del settore del trasporto aereo e dei servizi aeroportuali che si caratterizza per una notevole variabilità delle esigenze di personale, conseguenza dell’incremento dei servizi, in alcuni periodi dell’anno, al fine di far fronte alle esigenze del settore, il legislatore aveva disciplinato il settore con l’aggiunta della lettera f) all’art. 1, c. 2, della L. 230 del 1962.
L’art. 1 così novellato si proponeva come obiettivo quello di risolvere il contenzioso sviluppatosi in tema di “punte stagionali” nel settore aereo e aeroportuale. Infatti i provvedimenti amministrativi che autorizzavano le assunzioni necessarie a fare fronte a tali incrementi di attività erano stati oggetto di impugnazioni da parte dei soggetti interessati, i quali spesso erano riusciti ad ottenere la conversione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato.
Tale lettera f), così recitava: “Il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, salvo le eccezioni appresso indicate (…) f) quando l’assunzione venga effettuata da aziende di trasporto aereo o da aziende esercenti i servizi aeroportuali ed abbia luogo per lo svolgimento dei servizi operativi di terra e di volo, di assistenza a bordo ai passeggeri e merci, per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti, e nella percentuale non superiore al 15 per cento dell’organico aziendale che, al 10 gennaio dell’anno a cui le assunzioni si riferiscono, risulti complessivamente adibito ai servizi sopra indicati. Negli aeroporti minori detta percentuale può essere aumentata da parte delle aziende esercenti i servizi aeroportuali, previa autorizzazione dell’ispettorato del lavoro, su istanza documentata delle aziende stesse. In ogni caso, le organizzazioni sindacali provinciali di categoria ricevono comunicazione delle richieste di assunzione da parte delle aziende di cui alla presente lettera”.
Dunque, non era richiesta l’esistenza di una causale predeterminata, ma vi erano dei limiti temporali e quantitativi che dovevano essere rispettati. Veniva infatti consentita innanzitutto l’apposizione di un termine nei contratti, per un periodo massimo complessivo di 6 mesi, compresi tra aprile e ottobre di ogni anno. Inoltre, era permessa la previsione di un termine nei contratti aventi una durata massima di 4 mesi, diversamente distribuiti nell’anno, purché entro il limite del 15% dell’organico aziendale relativo ai servizi interessati. La data di riferimento per il calcolo dell’organico aziendale era quella dell’1 gennaio dell’anno nel quale venivano conclusi i contratti a tempo determinato.
2) Contratto a termine settore trasporto aereo: disciplina speciale art. 2 D.lgs. 368/20012 – ratio.
L’art. 2 del D.lgs. 368/2001 (disposizione oggi abrogata dall’art. 55, comma 2, D.lgs. 81/2015), ha sostanzialmente riprodotto la disciplina sopra sintetizzata. Questa disposizione, costituisce una normativa “aggiuntiva per il trasporto aereo ed i servizi aeroportuali”. Di conseguenza nei settori in questione, oltre alla normativa di carattere generale in merito alla legittima apposizione del termine, contenuta all’art. 1 del citato D.lgs., trova applicazione tale regolamentazione speciale.
E’ evidente nella prima delle ipotesi sopra richiamate una presunzione legale di punta stagionale: in altri termini il datore di lavoro nel settore del trasporto aereo (ed in quello postale) non dovrebbe, diversamente da quanto previsto dall’art. 1 del D. lgs. 368 del 2001, specificare le ragioni tecniche produttive, organizzative o sostitutive legittimanti l’apposizione del termine. E’ lo stesso legislatore che in tal caso ritiene sussistenti in via presuntiva le ragioni giustificative sulla base delle caratteristiche del settore, che necessita in determinati periodi dell’anno di un incremento dell’organico aziendale. La presunzione legislativa di esistenza di una punta stagionale non opera invece per i contratti a tempo determinato rientranti nella seconda delle ipotesi suesposte. Il datore di lavoro potrà apporre un termine in presenza di una qualsiasi ragione aziendale, purché venga rispettato il limite percentuale inderogabilmente stabilito dal legislatore. E’ evidente che in tale ultima ipotesi la ratio giustificatrice è stata l’esigenza di liberalizzazione delle assunzioni a termine e di maggiore flessibilità del lavoro nel settore dei servizi aeroportuali.
Si esclude in dottrina che le “ragioni aziendali” che consentono di apporre un termine ai contratti della durata massima di quattro mesi “diversamente distribuiti” siano da equipararsi alle ragioni di carattere tecnico produttivo, organizzativo o sostitutivo di cui all’art. 1 del D. lgs. 368 del 2001, in considerazione del carattere aggiuntivo e speciale della disciplina e dell’esigenza liberalizzatrice sostenuta dal decreto in esame. Pertanto le aziende del settore del trasporto aereo esercenti servizi aeroportuali in sede di stipula di contratti del secondo tipo, dovranno semplicemente rispettare il limite quantitativo del 15% godendo esse secondo la dottrina di una quota di flessibilità “pura” nella gestione degli organici, senza cioè che esse debbano di volta in volta accertare la sussistenza delle ragioni oggettive contenute nell’art. 1 del D. lgs. 368 del 2001, e quindi senza esplicitare alcuna causale di assunzione. L’eventuale controllo giudiziario verterà soltanto sul rispetto di detto limite percentuale e non anche su quella ragione aziendale sottostante le assunzioni a termine. Si è sostenuto in dottrina che il rispetto del principio di eguaglianza avrebbe dovuto comportare l’applicazione della normativa in questione a tutti i settori che presentano analoghe esigenze. Tuttavia, ad oggi, il legislatore si è limitato ad estendere tale disciplina alle sole imprese operanti nel settore dei servizi aeroportuali e postali. Si è in quel caso trattato di una disciplina di favore delle società del gruppo Poste Italiane S.p.a., protagoniste da oltre un decennio di un contenzioso in materia di contratti a tempo determinato che le aveva viste spesso soccombenti di fronte alle richieste dei lavoratori assunti a termine di conversione del rapporto in contratto a tempo indeterminato.
Come già accennato in precedenza, la disciplina contenuta nell’art. 2 del D. lgs. 368 del 2001 assume una valenza sostitutiva, nello specifico settore di destinazione, rispetto alla regola di cui al precedente art. 1. In altri termini a fronte di una regola generale che postula, per la valida stipula di un contratto a tempo determinato, l’esistenza di esigenze oggettive di carattere temporaneo, esiste una regola speciale, che ammette limitatamente ai servizi aeroportuali la conclusione di un contratto a termine anche in assenza del carattere temporaneo dell’interesse imprenditoriale da soddisfare. Il regime speciale deve quindi considerarsi autosufficiente dal punto di vista causale, proprio perché bilanciato dall’introduzione per legge di limiti percentuali e di durata.
Per tali motivazioni la dottrina ritiene che i due regimi, quello speciale e quello comune, siano destinati a concorrere, solo ove sussistano ragioni temporanee di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo ulteriori rispetto a quelle preventivamente valutate e quantificate nell’art. 2 del D. lgs. 368 del 2001.
3) Violazione della normativa
Nella sentenza in commento il Giudice ha evidenziato, dopo un excursus di tutti i contratti di assunzione stipulati tra la ricorrente e le convenute, che queste ultime hanno violato l’art. 2 D.lgs. n. 368/2001, che ha il seguente tenore letterale: “Art. 2 (Disciplina aggiuntiva per il trasporto aereo ed i servizi aeroportuali) E’ consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato quando l’assunzione sia effettuata da aziende di trasporto aereo o da aziende esercenti i servizi aeroportuali ed abbia luogo per lo svolgimento dei servizi operativi di terra e di volo, di assistenza a bordo ai passeggeri e merci, per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti e nella percentuale non superiore al quindici per cento dell’organico aziendale che, al 1° gennaio dell’anno a cui le assunzioni si riferiscono, risulti complessivamente adibito ai servizi sopra indicati”.
Nel caso di specie, la lavoratrice ha lavorato per più di 16 mesi da Ottobre 2014 al 30 Settembre 2016, in aperta violazione della disposizione normativa.
E’ stato evidenziato dalle Sezioni Unite (Cass., s. u. 11374/2016) come a tutto ciò deve aggiungersi con riferimento specifico ai contratti rientranti nella previsione dell’art. 2, comma 1 (trasporto aereo e servizi aeroportuali) che l’abuso è perseguito con ulteriori misure, in quanto ciascuno dei contratti in successione non potrà superare i sei mesi, compresi tra aprile e ottobre di ogni anno e i quattro mesi per il restante periodo; la loro stipulazione dovrà essere comunicata alle organizzazioni sindacali provinciali e, infine, e soprattutto, i contratti a termine non potranno essere stipulati in misura superiore alla percentuale del quindici per cento dell’organico aziendale, riferito al 10 gennaio dell’anno in cui le assunzioni sono effettuate.
Un orientamento giurisprudenziale conforme è rappresentato dalla sentenza emessa dal Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, n. 910/2017, nella quale il Giudice ha ribadito che al sol fine di valutare la legittimità del termine apposto alla prestazione di lavoro, si deve tenere conto unicamente dei limiti temporali, della percentuale (sull’organico aziendale) e degli oneri di comunicazione previsti dall’art. 2, comma 1, del D.lgs. n. 368/2001 (Cass. Civ. Sez. Lav. n. 13609/2015).
4) Conclusioni
In riferimento alla sentenza in commento, il Tribunale di Busto Arsizio ritenendo documentalmente provato il superamento dei limiti temporali per i contratti stipulati con la ricorrente da Settembre 2013 sino al 30 Settembre 2016 (la ricorrente ha lavorato per ben 16 mesi consecutivi) ha accertato e dichiarato l’illegittimità del termine apposto al contratto del 20 Ottobre 2014 e disponendo la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato a far data dal 22 Ottobre 2014.
Il Giudice ha condannato W. alla riammissione in servizio della ricorrente e del pagamento in favore della medesima di una indennità pari a 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto sei sensi dell’art. 32, comma 5, L. 183/2010.

2017

Licenziamento illegittimo dopo il Jobs Act
fotia / 0 Comments /Il D.lgs. 23/2015, attuativo del Jobs Act, ha introdotto il contratto a tutele crescenti, che non è una vera e propria forma di contratto, ma ridisegna la disciplina sanzionatoria dei licenziamenti individuali per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015, con l’obiettivo primario di ripartire l’occupazione. Il regime di tutele predisposto per i nuovi assunti prevede una correlazione tra la misura dell’indennizzo economico e l’anzianità aziendale, facendo sì che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato sia definito “a tutele crescenti”.
L’ordinamento prevede regimi di tutela diversi e paralleli a seconda che il lavoratore licenziato sia stato assunto prima o dopo il 7 marzo 2015 e a seconda del numero dei dipendenti dell’azienda, cioè se quest’ultimo è maggiore o minore di 15.
Innanzitutto è opportuno precisare che la nuova disciplina non introduce novità per quanto riguarda le tutele applicabili in caso di licenziamento discriminatorio, nullo o intimato in forma orale: in tali ipotesi, a tutti i lavoratori, indipendentemente dalle dimensioni dell’azienda, è riconosciuto il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, oltreché il diritto a percepire un’indennità risarcitoria corrispondente alla retribuzione dovuta dal giorno del licenziamento al giorno di effettiva reintegrazione, che non potrà essere inferiore a 5 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR. Inoltre, il datore di lavoro è condannato, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziale ed assistenziali.
Tali tutele, per espressa indicazione del legislatore, si applicano anche nelle ipotesi in cui il giudice accerti il difetto di giustificazione per motivi relativi alla salute e disabilità fisica o psichica del lavoratore. Il licenziamento illegittimo per difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68 è equiparato, sul piano degli effetti, al recesso nullo per motivi discriminatori o perché riconducibile ad altri motivi di nullità previsti dalla legge. La conseguenza – anche per le piccole imprese – è la reintegrazione nel posto di lavoro con risarcimento pieno, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.
Ciò è quanto prevede, per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 in avanti, l’art. 2, comma 4, del D. Lgs. 4 marzo 2015 n. 23. Il primo aspetto da valorizzare è che, diversamente dalla disciplina previgente, frutto del combinato disposto dei commi quarto e settimo dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori ed ancora applicabile alla platea dei vecchi assunti, il D. Lgs. 23/2015 parla di motivo consistente nella disabilità e non più nella idoneità. Secondo l’interpretazione letterale del nuovo decreto, il più severo regime sanzionatorio della reintegrazione sarebbe applicabile ai licenziamenti per motivi fisici o psichici solo laddove sussista una disabilità in senso tecnico, accertata dalle competenti commissioni mediche, o un’altra situazione rilevante ai sensi della normativa sul lavoro dei disabili; si pensi, per esempio, al caso tipizzato del lavoratore divenuto inabile allo svolgimento delle proprie mansioni in conseguenza di infortunio o malattia imputabile al datore di lavoro (art. 4, comma 4, Legge n. 68/1999).
A differenza delle tipologie di licenziamenti illegittimi suindicati, il decreto legislativo 23/2015 prevede, rispetto alla disciplina previgente, una sostanziale diminuzione delle ipotesi in cui il giudice può ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro del dipendente illegittimamente licenziato.
In particolare, il decreto stabilisce che il datore di lavoro può essere obbligato a reintegrare il lavoratore nei soli casi di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, e cioè solo qualora il licenziamento disciplinare risultasse del tutto ingiustificato.
Fuori di questi casi, il lavoratore illegittimamente licenziato ha diritto a percepire esclusivamente un indennizzo economico, la cui misura è calcolata in base alla sua anzianità di servizio.
Per quanto riguarda i lavoratori assunti presso le piccole imprese, la nuova disciplina prevede l’applicazione del medesimo regime di tutele previsto per i dipendenti delle imprese di maggiori dimensioni, con due significative differenze:
- è esclusa la reintegrazionenell’ipotesi del licenziamento disciplinare dichiarato illegittimo per insussistenza del fatto materiale;
- la tutela economica risulta sostanzialmente dimezzata.
Il decreto stabilisce peraltro che, nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di nuove assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente all’entrata in vigore del decreto legislativo 23/2015, raggiunga le soglie dimensionali previste dall’art. 18, a tutti i lavoratori (vecchi e nuovi assunti), si applicherà integralmente la disciplina del contratto a tutele crescenti ed il relativo regime sanzionatorio previsto in caso di licenziamento ingiusto.
Allo stesso modo, la nuova disciplina verrà applicata anche nei casi di conversione, successiva all’entrata in vigore del decreto, di contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato.
I lavoratori già assunti a tempo indeterminato prima del 7 marzo 2015, seppur ad oggi non interessati dalle novità normative, potranno comunque esserlo in futuro, allorché dovessero cambiare lavoro, transitando nella condizione di “nuovi assunti” presso un diverso datore di lavoro.
Per tutte le altre ipotesi di licenziamento la nuova normativa prevede tutele diverse a seconda che il licenziamento riguardi lavoratori assunti presso imprese che superano le soglie numeriche fissate dall’art. 18 della legge 300/1970 ovvero lavoratori assunti presso datori di lavoro che non raggiungono dette soglie.
In primo luogo risulta doverosa una analisi sul licenziamento economico, e/o licenziamento per giustificato motivo oggettivo, basato su questioni di carattere tecnico, organizzativo e produttivo, che può essere dichiarato illegittimo dal giudice nel caso in cui quest’ultimo accerti la manifesta insussistenza del fatto produttivo od organizzativo posto a fondamento del licenziamento.
Risulta decisivo stabilire quando si possa parlare di insussistenza del fatto e, prima ancora, in che cosa esattamente consista il “fatto” la cui insussistenza rivesta tale carattere decisivo. Si discute in particolare se questo vada inteso come “fatto giuridico”, e cioè giuridicamente qualificato e rilevante, oppure come mero “fatto materiale”, e cioè quale puro evento storico che il datore di lavoro pone a base del licenziamento. Affinché il datore di lavoro possa addebitare il fatto materiale contestato al lavoratore, dovrà produrre giusta lettera di contestazione. Dovrà limitarsi a indicare esclusivamente fatti oggettivi che possono essere direttamente provati in giudizio. Non più una pluralità di infrazioni, con margini di incertezza, ma fatti oggettivamente esistenti. La discrezionalità del giudice è limitata dalla presenza del fatto materiale, seppur banale o minimo, senza possibilità di verifica della proporzione tra fatto sussistente e d’illiceità modesta.
La sentenza Cass, Sez. Lavoro n. 20540 del 13 ottobre 2015 ha sottinteso che l’insussistenza materiale del fatto, se non è illecito, è inesistente.
Pertanto l’irrilevanza giuridica del fatto, materiale o non, per liceità o per modesta importanza, porta alla reintegrazione ex art. 18, certamente per quanto normato dalla Fornero con beneficio per quanto previsto nelle tutele crescenti.
Mentre per la legge Fornero in caso d’insussistenza del fatto contestato o di manifesta insussistenza del fatto che ne ha determinato il licenziamento, la reintegra ex art. 18 della L. 300/1970 ne rappresenta il regime sanzionatorio, per il D. Lgs. 23/2015 la reintegrazione è ammessa per l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto al quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento.
Sia per la Fornero, sia per il decreto tutele crescenti, il problema comune è quello della sussistenza o insussistenza del fatto, materiale o no.
I lavoratori assunti successivamente la data del 7 marzo in aziende con meno di 15 dipendenti, nei confronti dei quali è stato intimato un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, eventualmente dichiarato illegittimo, hanno diritto ad ottenere il pagamento di un’indennità risarcitoria, non soggetta a contribuzione previdenziale, di importo pari ad una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio. L’importo dell’indennità deve essere compresa tra un minimo di 2 ed un massimo di 6 mensilità. In tale circostanza vige il divieto di reintegrazione ed il rapporto di lavoro è dichiarato estinto alla data di licenziamento.
Mentre, per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 è prevista la riassunzione entro il termine di tre giorni dal licenziamento, ovvero, in mancanza, il pagamento di un’indennità risarcitoria da 2.5 mensilità ad un massimo di 6.
Con riferimento ai lavoratori assunti successivamente alla data del 7 marzo 2015 in aziende con più di 15 dipendenti, in caso di licenziamento economico illegittimo è prevista la medesima indennità risarcitoria, così come prescritta dall’art. 3, comma 1, del D. Lgs. 23/2015, di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio. L’importo dell’indennità risarcitoria deve essere compreso tra un minimo di 4 ed un massimo di 24 mensilità. Anche in questo caso non è prescritta la reintegrazione nel posto di lavoro, ed il licenziamento è dichiarato estinto dalla data del licenziamento.
Mentre nel caso di lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 è prevista, al contrario, la reintegrazione nel posto di lavoro o l’indennità sostitutiva pari a 15 mensilità, ed è dovuto il pagamento dell’indennità risarcitoria non superiore a 12 mensilità pari all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, diminuita dell’aliunde perceptum e dell’aliunde percipiendi.
Sono, infine, intervenute delle modifiche anche nelle ipotesi di licenziamento disciplinare, nel caso di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, che avviene quando il lavoratore ha commesso un fatto che inficia il rapporto di fiducia con il datore di lavoro, violando norme stabilite dalla legge, dai contratti collettivi nazionali o quelle previste nel codice disciplinare dell’azienda.
In caso di licenziamento disciplinare, il decreto legislativo sul contratto a tutele crescenti attuativo del Jobs Act mantiene la reintegrazione, ma ne ridimensiona l’applicabilità a ipotesi residuali. In particolare, la nuova disciplina prevede che si applichi la reintegrazione se la causa che ha determinato il licenziamento derivi da un fatto materiale insussistente. Dunque, il lavoratore non deve aver commesso materialmente il fatto. Vi è così un orientamento che considera il fatto in senso materiale nelle sue componenti di condotta od omissione, nesso causale ed evento, un fatto per cui non è necessaria la valutazione di profili giuridici, e un orientamento opposto e prevalente, ha sostenuto la tesi del fatto in senso giuridico, comprensivo di elementi ulteriori rispetto alla mera condotta materiale del lavoratore. Secondo autorevole dottrina, tale interpretazione in senso giuridico dovrebbe essere applicata anche alla più recente disciplina del Jobs Act. Appare condivisibile che il fatto materiale posto a fondamento del licenziamento debba quantomeno coincidere con un inadempimento colpevole, quindi con un fatto che sia allo stesso tempo imputabile al lavoratore e rilevante sul piano disciplinare.
Negli altri casi il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria. In particolare, il comma 2 dell’articolo 3 del decreto, prevede che la reintegrazione ha luogo esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento. Mentre è prevista una tutela indennitaria e non anche la reintegrazione nel posto di lavoro quando risulta accertato che non ricorrano gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estino il rapporto alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura
comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità.
Queste regole valgono esclusivamente nel caso in cui il datore di lavoro che procede al licenziamento occupi più di 15 dipendenti (se imprenditore agricolo più di 5 dipendenti) in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo e, in ogni caso, qualora occupi complessivamente più di sessanta dipendenti.
Se il datore di lavoro non possiede questi requisiti (c.d. requisiti dimensionali) le tutele per il lavoratore ingiustamente licenziato sono parzialmente differenti.
In questo caso, infatti, il Giudice non potrà mai ordinare la reintegrazione nel posto di lavoro e le indennità risarcitorie sono ridotte della metà e non possono comunque superare le 6 mensilità.
